mercoledì 6 novembre 2013

Una parte di me

Vicinanza. Di recente, la psicologa che in questi anni mi ha aiutata ha puntualizzato una serie di miei comportamenti nei suoi confronti, tutti finalizzati ad impedire una vicinanza, un'intimità con l'altro. Dai gesti semplici (scegliere una sedia piuttosto che un'altra, frapporre oggetti tra me è l'interlocutore) a situazioni più complesse (parlo dei miei problemi e sorrido, impedendo all'altra persona di venire in contatto con quello che veramente provo io, cioè dolore), al fatto che sono un po' restia a parlare. "Restia" è un eufemismo: ci ho messo due anni per tirare fuori un problema, per poi riporlo sotto silenzio per altri mesi, prima di accennarvi una seconda volta. La conclusione della mia psicologa è stata che "sembra che non ti fidi nemmeno di me". Mi fido di te, avrei voluto dirle. Però è vero, sembra di no.
Quando ho iniziato a scrivere questo blog, cioè non molto tempo fa, mi sono ripromessa di pubblicare solo post (pro)positivi. Post che, in qualche misura, dessero il senso dei miei vissuti o potessero renderne un abbozzo di analisi. Una presa di consapevolezza per me, uno spunto per altri, insomma. Mi rendo conto della falla, ora. Ho pensato di poter lasciare qui le mie esperienze risolte, quelle da cui il carico di dolore è stato alleviato, tenendo per me quelle vive, quelle in cui il dolore è ancora troppo grande, quelle di cui mi vergogno. E la vergogna nasce dalla paura del giudizio degli altri; la reticenza dalla paura che gli altri non sappiano guardarci in modo diverso da quello che ci aspettiamo che facciano. Bisogna fidarsi degli altri per lasciarsi andare. E - è vero – io non mi fido.

Fiducia. Non mi fido a lasciar entrare in contatto gli altri con il mio dolore, per una semplice ragione: dietro al mio dolore ci sono io. Ci sono io con tutte le mie paure, le mie ansie. Io, con tutte le mie gioie e i miei sorrisi. Io che mi odio, io che mi evito; io che cerco ogni giorno di volermi bene. Dietro al mio dolore rido. Dietro al mio dolore piango. Ed ogni giorno, qualunque cosa accada, decido di sperare ancora. Quando tutto va bene è più facile; sposto un po' lo scudo che mi protegge e parlo. Difficile che svisceri un argomento critico in piena crisi, devo averne già almeno un piede fuori. Quando le cose vanno male, mi ritiro. E lascio gli altri lontani, perché non possano mettere mano alla mia sofferenza. Come se potessero giocarci o riderci sopra; come se potessero giudicarla. E se dietro alla mia sofferenza ci sono io, chi giudicano loro realmente? La mia sofferenza? Me?

Per la paura del giudizio, cerco di riflettere un'immagine che sia conforme ai canoni. E questo ad un prezzo altissimo, che la mia psicologa mi ha fatto notare a modo suo: scotomizzo le parti di me che ritengo non essere adeguate. Cioè (quasi) tutto. Parti che fingo che non esistano, ma che tornano fuori in molti modi, come le abbuffate. Abbuffate che vengono a loro volta sotterrate, perché non conformi. Ma ne vale la pena? Vale la pena perdere quasi tutta me stessa per paura di non andare bene, di non essere conforme? O, forse, per paura di esserlo? Ma c'è poi differenza?

Abbuffate. Parlo di abbuffate, ma non sono bulimica. Non mangio fino a scoppiare, non vomito dopo. Io apro pacchi e pacchi di cibo, sempre e solo zuccheri (carboidrati e dolci), mastico e sputo. Di solito con latte. Di solito ingerisco anche uno po'. A volte dura poco, altre volte ore e arrivo alla fine gonfia e nauseata, mi viene da vomitare. Arrivo alla fine che mi sento in colpa per le quantità, mi vergogno per il modo, mi faccio schifo per come sono. Vorrei annullarmi, vorrei negarmi. Vorrei essere un'altra.
Succede soprattutto la sera. Quando lo stress cala, quando ci sarebbe tempo per me. Quando mi prende l'ansia che quel tempo per me sia sprecato, quando penso che "dovrei" fare tante cose e ciò che "vorrei" diventa solo un'ombra lontana, così sfumata che non riesco nemmeno più a comprenderne la forma. E il senso. Mi riprometto che ogni sera sarà l'ultima, che non ci saranno più abbuffate. 
A volte ci riesco. La scorsa settimana è stata la prima libera, 6 giorni su 7, da lunedì a sabato. Io ci credo, ci credo che prima o poi riuscirò a fermarmi. Lo sento che ogni volta ci sono sempre più vicina. Manca poco, manca un qualcosa. Un qualcosa che non riesco a gestire, perché mi toglie di mano la soluzione definitiva. E quando sento che sto perdendo il controllo, anche se ho lottato dannatamente 6 giorni, quando sento che sono al limite...lascio andare tutto, quasi con indifferenza. Allontano anche da me il mio dolore.
È l'idea di uno stop definitivo che mi spaventa, come mi spaventa l'idea delle ricadute. Combatto ogni giorno contro l'idea del "tutto o niente", perché questa concezione rientra nel mio modo di relazionarmi alle cose. Sono terrorizzata del privarmi di questi episodi, perché, nonostante mi facciano malissimo, mi danno conforto. Ed ogni volta che riesco a staccarmi, quel distacco mi sembra inutile, perché non mi sembra abbastanza definitivo e totale. 

Presente e futuro. Sto vivendo esperienze nuove. Nuove amicizie, un altro piccolo ambiente che inizio a considerare "casa". Il mio piccolo mondo si sta formando, finalmente ho degli amici che posso considerare una "base" sicura. La mia vita sta prendendo una direzione. Ci sono persone che si stanno fidando di me. Che ascoltano le mie richieste, che mi danno una possibilità. Ho ricevuto, in questi giorni, una possibilità per il mio futuro. Per la quale devo studiare, faticare, lottare, confrontarmi. La devo conquistare. E a me queste cose non fanno paura: è quello che vorrei fare nella vita, è una cosa che mi appassiona. Ma ho addosso un'enorme angoscia, l'angoscia di non farcela, l'angoscia di essere sbagliata. Di deludere, di rimanere delusa. L'angoscia di non meritarmi ciò che vorrei, proprio per come sono. L'angoscia c'è e io...

...le tengo testa. Come è vero che da domani ricomincio a contare di nuovo i giorni senza abbuffate, perché domani dovrà essere il primo. E spero il primo di una lunga serie.
Le tengo testa, però la domanda resta: perché ho questa angoscia? Perché ho paura di non farcela? Cosa succede se non ce la faccio? E cosa succede se - invece - ce la faccio?

La risposta non ce l'ho. Per il momento mi accontento di lasciare da parte il mio scudo e raccontarvi il mio dolore. Decido di fidarmi, di scoprirmi. Alla fine dei giochi, non voglio essere quella lontana per paura. Vorrei riuscire a lasciarmi andare. A ridere fino in fondo, piangere fino in fondo, perdere il senso del tempo. Dimenticarmi della dicotomia tra la mia mente è il mio corpo. Sentirmi una. Sentirmi me.
Per il momento mi accontento di tenere duro, continuare a crederci. Ricominciare a contare, sperando di contare sempre un po' più a lungo.

Credete sempre di potercela fare. Perché nessun altro può farlo efficacemente al posto vostro.
Vale

6 commenti:

  1. mi è piaciuto tanto questo post, sopratutto l'idea di contare, "da domani basta", poi un giorno accade e non te accorgi, perchè stai troppo bene x pensarci, perchè tutti ce la possiamo fare, con fiducia, vicinanza, senza peso del passato ma guardando al futuro! ho trovato il tuo blog tramite 'born or die', se ti va passa dal mio www.spazioaiuto.it e se vuoi scrivermi, ti racconto meglio la mia storia!

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  2. Ciao, grazie per essere passata! Certo, passo volentieri dal tuo blog e vorrei proprio conoscere la tua storia.
    A volte sì, è come dici, ci vuole fiducia. Perché in certi momenti non c'è altro come la fiducia, che ti possa far rialzare. A volte sembra quasi un atto di coraggio, un atto folle, avere fiducia anche in situazioni che vivi come totalizzanti, in cui ti senti in balia di qualcosa su cui non hai del tutto il potere. Ma la fiducia vera è proprio lì, è quella che non viene sopraffatta dallo sconforto, nemmeno quando lo sconforto si fa enorme e rimane tale a lungo.
    Grazie per essere passata!
    Vale

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  3. Ti capisco bene quando dici che riesci a parlare solo delle problematiche che hai in qualche modo risolte, tenendo chiuse in te quelle che invece ancora stai vivendo all'acme della difficoltà. Anche io mi comporto così, sebbene lo faccia per motivazioni diverse dalle tue. Da una parte mi comporto così perchè sono una persona estremamente orgogliosa, e mi farei tagliare la lingua pur di non ammettere davanti agli altri che ho un problema, ma forse anche perchè ho la presunzione di essere capace di risolverli da sola, i miei problemi. Però questo è ciò che ci stai in superficie. Se guardo più a fondo, credo che il principale motivo della mia reticenza nel parlare dei miei problemi quando questi sono al loro apogeo, sia legata alla paura. Paura che qualcuno mi possa dare una mano. Perchè penso che se qualcuno mi aiuta, poi mi adagio... e quando mi si ripresenterà un'altra problematica, non sarò capace di venirne a capo da sola, qualora non avessi l'aiuto di nessuno, e vi sprofonderei. Per questo ho la necessità di gestire tutto da sola. Che poi credo questo in fondo si ricolleghi al mio spasmodico bisogno di avere tutto sotto controllo, che è quello che mi ha guidato nell'anoressia.

    Per quanto riguarda invece la tua paura di non farcela... io credo sia umanissima. Perchè sai che se tu ci provassi, ci mettessi tutto il tuo impegno, e poi ricadessi, ti sentiresti persa perchè penseresti: "Ma se ce l'ho messa tutta e non è andata... cosa mi resta? Vuol dire che non riuscirò mai ad uscire da quest'impasse?"... e questo inevitabilmente fa paura. Però, prova a non vedere il "farcela" come una panacea assoluta... non pensare ad un futuro perfetto (perchè sennò poi è ovvio che non lo raggiungi - poichè tutto è perfettibile, niente è perfetto - e ti piglia malissimo), pensa ad un futuro migliore. E pensa a come puoi fare per cercare di migliorare, un passo alla volta, la situazione attuale.
    Lo so che anche l'idea di potercela fare fa tanta paura quanta l'idea di non farcela. Perchè fa paura la serenità. Il DCA, per quanto patologico e limitante, rappresenta comunque un porto sicuro, un qualcosa che ormai, dopo tanti anni, sappiamo come gestire, sappiamo cosa aspettarci... Potercela fare significa invece cambiare le cose, andare in contro all'ignoto. E questo fa inevitabilmente paura. E' per questo che spesso ci si rifugia nel DCA rifiutando di ascoltare ogni segnale che ci potrebbe cambiare... perchè ci fa paura l'idea di quello che potrebbe succedere se, dopo, dovessimo comunque sentirci uguali ed avere gli stessi pensieri in testa e le stesse problematiche.
    Però, come tu stessa hai giustamente scritto, una precisa risposta alla domanda in realtà non esiste. L'unica possibile risposta è la vita. Per questo dobbiamo andare avanti, e vedere cosa ci aspetta... di qualsiasi cosa si tratti. E, magari, un giorno ci accorgeremo che non avrà più importanza trovare una risposta... perchè saremo fiere di quello che siamo diventate, e questo avrà fatto sparire ogni domanda.
    Ti abbraccio forte...

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    1. @veggie capisco quando mi dici che pensi che non ti fai aiutare perchè..."poi ti adagi", o hai paura che questo accada. Anche io ho vissuto questa sensazione, per un pò. Però poi, nel mio caso, ho abbandonato questa spiegazione come ho cercato di abbandonare tutte le scuse che tiravo fuori. Perché si trattava di questo, di una scusa. Cioè, non ci stava che non affrontassi il problema dalla psicologa perchè poi avrei potuto avere (al condizionale!) un altro ipotetico problema (ipotetico) che forse (forse!) non sarei stata in grado (di nuovo) di affrontare da sola. Un po' troppe condizioni, mi sono detta, forse è un altro il punto. E in effetti il punto era un altro. È che a volte è difficilissimo "stare dentro" al proprio problema, entrarci in contatto. A volte è molto difficile entrare in contatto con se stessi. Questo è stato il mio enorme ostacolo e lo è ancora. Però provare a parlare, proprio in quei momenti acuti, ti dà il senso (a posteriori, non sul momento) che forse il lasciare che qualcun altro si avvicini a te e, in qualche modo, ti sia intimo, non è una perdita di controllo. Perché semplicemente l'altro non ha il controllo di te. Perché tu sei tu. E non hai bisogno di controllo per essere te stessa. (Cioè, lo so, mi si potrebbe dire "brava, hai scoperto l'acqua calda!", ma per me è così, ho scoperto ora che essere se stessi forse non fa così schifo come ho pensato per anni, perché la propria persona è tutto ciò in cui possiamo sentirci più liberi senza necessità di dover controllare. Perché noi "siamo", non ci "possediamo". Scusa, sono andata un pò' off-topic.
      Quanto alla paura di non farcela...è un discorso complicato. Sto capendo ultimamente che non è proprio così, anzi, è il contrario. È la paura di farcela che mi frega...
      Lo so, pare assurdo...

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    1. Perdona il ritardo, ho avuto una settimana impegnatissima :) sai, io non credo tantissimo alla dicotomia mente-corpo, però è una frase che mi viene fuori dall'esperienza personale. Ho avuto dei vissuti che hanno riguardato sia il corpo sia la mente. Ho creduto per anni che il corpo e le sue imperfezioni fossero la causa. Poi ho scoperto che la mente era il traino ed il mio corpo è cambiato con essa. E cambia di giorno in giorno, come cambia la mente.
      Io non credo che la sfiducia sia un atto di forza, ma vedo la fiducia come un atto di enorme coraggio. Se io mi fido di qualcuno, gli cedo anche solo per un momento il timone della mia nave. E per una un po' incentrata sul controllo delle cose, come me, capisci che cedere il timone a qualcuno è un atto davvero di coraggio. La sfiducia...la sfiducia è la norma, è la difesa. La sfiducia è semplicemente ciò che ti riconferma quello che già pensi, cioè che prima o poi, il controllo lo perdi, perché è inevitabile. E significa che forse, al controllo, dai un'importanza molto marcata. La sfiducia intesa come "impossibilità a fidarsi" non è una scelta; e ciò che non scegli, ciò a cui ti obblighi per una sorta di coerenza interna che però ti fa soffrire, no ti da libertà. Anzi, ti porta all'ultimo punto che dici tu. Il "farsi male per farsi male". Si, perché a volta il danneggiarsi sembra davvero l'unica scelta, perché è perfettamente coerente con il modo che si ha di intendere se stessi. E se noi entriamo in contatto con noi stessi pensando di essere uno schifo, non potremo adottare dei comportamenti che si distacchino da questo nostro modo di intenderci, perché sarebbero poco coerenti. Il fatto di continuare a fallire, a danneggiarci, diventa perfettamente "funzionale" al nostro modo di pensare a noi stesse. È su questo ultimo punto che bisogna agire. Perché nessuno di noi fa schifo. È nessuno di noi fa schifo a priori. Ci son tante belle cose da vivere, tante belle occasioni da concedere a se stessi. In cui magari gli altri non sono più solo dei nemici, ma dei compagni. Poi ci sta che qualcuno non ti tratta come dovrebbe, ci sta pure la volta in cui rimani male. Ma sono piccole cose, in confronto a tutto il bene che puoi trovare.
      E ti auguro con tutto il cuore di trovare molte belle cose.
      Vale

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